IL RITMO DEI PAESAGGI DIMENTICATI. I VUOTI NEL PAESAGGIO

PAESAGGI SCARTATI

Nel 2021 ci sono celebrazioni di centenari importanti, tra queste quella dello scrittore e poeta veneto Andrea Zanzotto, nato 100 anni fa a Pieve di Soligo in provincia di Treviso.

… la distruzione del paesaggio è per me un lutto terribile.

Bisogna indignarsi e fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta

come un’area da edificare.

Andrea Zanzotto

Zanzotto nelle sue elegie spesso parlava  dello sconquasso ambientale, del capitalismo vorace, della dimenticanza del paesaggio, veneto nel suo caso. Un paesaggio che conosceva bene e la cui modificazione riusciva ancora ad accettarla – con fastidio – quando realizzata nel dopoguerra, in quel breve periodo di rinascita, quando si costruiva per bisogno, quando le case erano distrutte, quando c’erano i soldi del piano Marshall. Ma non accettava il disordine e la mancata programmazione, allora come in seguito.

Oggi molta parte del nostro paesaggio si divide in situazioni estreme: spazi inespressi, dimenticati e aree cementificate, disorganizzate, abbandonate. Vuoti risultanti da diverse motivazioni ma dal medesimo risultato e significanza formali: la violazione di un nostro Bene Comune. Che dovrebbe essere inviolabile.

I vuoti nel paesaggio sono molti e sembra sempre che non abbiano mai un autore … o un colpevole. Spazi che sembrano accidentalmente “accaduti”, risultato di qualcos’altro, fortuiti.

Il vuoto invece non è mai involontario, ma esito il più delle volte di abbandono, dimenticanza, incuria ma anche di attesa, consapevolezza che sia un territorio da non violare, indugio di programma, o di mancanza di programma.

Si tramuta in ciò che Gilles Clément nel 2005 (anno della traduzione italiana) ha definito “terzo paesaggio” nel suo famoso libro Le Manifeste du Tiers-Paysage (2003, Editions Sujet/Objet). Qual è il terzo paesaggio? Come lo possiamo riconoscere? Questi solo alcuni esempi, evidentissimi.

– appezzamenti agricoli non coltivati

– parchi e riserve naturali non manutenuti

– grandi aree industriali disabitate

– ex discariche

– cave e miniere

– alvei asciutti

Molti di questi sono raccolti nel Manifesto del Terzo paesaggio, un piccolo breviario che interpreta in modo alquanto diverso le teorie sereniane sugli abbandoni e sulle incurie del territorio: per Sereni queste esclusioni erano condizioni che nella Storia, antica e moderna, si succedevano il più delle volte per causa “di forze maggiori”: guerre, carestie, contese: il famoso paesaggio medioevale violentato e abbandonato del Mal Governo di Ambrogio Lorenzetti nasceva proprio da condizioni che spesso la pratica politica condizionava forzatamente. Oggi, sempre più spesso, è trascuratezza e disattenzione.

I vuoti possono piuttosto diventare un valore se li facciamo diventare coerenti espressioni di senso e di processo, silenziosi custodi del genius loci, territori rigenerati nelle loro espressioni naturalistiche o nella coscienza/conoscenza storica. Un risultato e una risposta in tal senso potrebbe anche rispondere al consumo di suolo, inteso come fenomeno di antropizzazione di terreni agricoli e naturali, diventare contraltari a politiche urbanistiche espansionistiche, frenando con approcci integrati, come la mitigazione e la compensazione ecologica, i processi consumistici avviati nei territori. 

Il vuoto non è spazio perduto, indirizzato verso la sparizione, tutt’altro. Se riqualificato viene restituito alla collettività, diventando luogo di socialità, riconsegnato a una dimensione d’uso che non necessariamente indica l’edificare.

Periferia della città di Parma
Alveo del fiume Sisto a Pontina (Latina)

IL VUOTO COME RISORSA

I vuoti periurbani nella storia del paesaggio di cui ci parlava Sereni erano necessari alla città. Filtro indispensabile, bene comune al pari del sagrato religioso di fronte al Duomo o alla piazza laica del mercato e delle assemblee pubbliche, spazio civico flessibile, basti pensare al Prato della Valle a Padova o al Parco della Lizza a Siena. 

È in questi territori vuoti, inedificati, ma ben definiti e delimitati, che si inscenava l’organizzazione collettiva delle risorse comuni: spazio delle feste per la città, spazio del mercato per la campagna. Così si tutelava il cittadino e il contadino. Un vuoto che metteva tutti d’accordo, perché libero da schemi funzionali, ogni volta riproducibili “a piacere”. Questo perché il paesaggio dei vuoti è una risorsa comune e risponde ai bisogni umani generali, sociali e psicologici, che possono essere considerati beni collettivi qualitativi per gli esseri viventi. Interessante come lo spazio del vuoto diventi veduta e non solo luogo di incontro e scambio, e che addirittura “non venga semplicemente visto, ma coinvolga tutti i sensi” (Barbara Bender, 2002).

L’esempio riportato da Sereni in Storia del paesaggio agrario sulla nascita della città panellenica di Thurii, una città di fondazione la cui struttura urbanistica ortogonale ippodamea si proiettava sulla campagna circostante, è la migliore dimostrazione per manifestare la corrispondenza biunivoca tra elementi che lo studioso espone in svariati capitoli del testo. Non solo, egli riferisce più volte come nei riti di fondazione della città nel mondo antico si usasse l’utensile principe del mondo rurale: l’aratro, che serviva agli agrimensori per incidere i solchi della nuova città. Un rapporto dinamico tra città e campagne. La città deriva inesorabilmente dalle strutture tecnico-produttive legate all’agricoltura e anche i suoi spazi principali, come ad esempio le piazze o agorà, sono il risultato di questo mutuo scambio. Quando una di esse decade, inevitabilmente decade anche l’altra.

Dopo la fine del ‘700  le cose cambiano, sebbene nella nostra stretta attualità la Convenzione europea del Paesaggio sottolinei che il paesaggio nei suoi vuoti e nei suoi pieni “è elemento essenziale del benessere individuale e sociale”, e insista sulla necessità di recuperarlo promuovendo paesaggi di qualità, ma questo viene molto spesso eluso. 

Probabilmente perché prima di riqualificarli i vuoti bisognerebbe censirli: un’operazione il più delle volte difficile, non classificabile. Il vuoti nel paesaggio infatti sembrano tutti uguali, ma non è così. Possono essere un risultato, una dimenticanza, una rovina, una volontà. Conoscerli e inquadrarli in un contesto più ampio diventa necessario, senza regole  si rischia di reiterare l’inquietante Nottola, il protagonista de Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963): costruirci sopra, costruire, costruire, occupare spazi, cementificare, modificare ambienti naturali o rurali, spostare addirittura il corso dei fiumi, violentare le montagne, di cui il clamoroso esempio sono le cave.

TORNERANNO I PRATI?

Torneranno i prati era il titolo – perfetto – dell’ultimo film scritto e diretto nel 2014 da Ermanno Olmi, dedicato al brutale passaggio della Grande guerra sull’Altipiano di Asiago. Se ci aggiungiamo un punto interrogativo lo trasformiamo nella domanda che ci accompagna quando, percorrendo il paesaggio italiano, incontriamo gli squarci delle cave.

Negli anni della stesura della Storia di Emilio Sereni, l’Italia “delle città” era volta con ottimismo verso la modernità, attiva nella ricostruzione dopo il buio periodo bellico: si voleva vivere nel proprio tempo. La necessità di materia prima quale sabbia, ghiaia, inerti, gesso, pietre diventava prioritaria rispetto all’attenzione per l’ambiente. La disciplina delle attività estrattive in Italia era allora regolata (ancora oggi) dal Regio Decreto 29/7/1927 nº1443. Evidente come il testo possedesse una chiara impronta: quella di una Nazione in “fase di costruzione”, bisognosa di un prelievo enorme di materiali destinati a realizzare città ed infrastrutture. Cinquant’anni dopo con il DPR 616/1977 le funzioni amministrative si trasferiscono alle Regioni ma il trend è rimasto tale se non moltiplicato. Da lì purtroppo non ci si è più fermati.

Sono 4.168 le cave di estrazione autorizzate in Italia rilevate dal Rapporto di Legambiente nel 2021. Sono invece 14.141 le cave dismesse o abbandonate. Un dato impressionante considerando che solamente una piccola parte è destinata a concreto ripristino ambientale. L’illegalità nei prelievi malgrado i divieti nel nostro Paese è altissima, come la cattiva gestione dei siti e la sovrastima dei quantitativi prelevati rispetto al reale fabbisogno.

Sono 29,2 i milioni di metri cubi estratti annualmente per sabbia e ghiaia, usati nelle costruzioni, ma elevati sono anche i quantitativi di calcare (26,8 milioni di metri cubi) e di pietre ornamentali (oltre 6,2 milioni di metri cubi). Il prelievo di sabbie continua ad essere rilevante malgrado gli impatti ambientali che ne derivano. Le 4 regioni che occupano la gran parte di Pianura Padana (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto) rappresentano il 72% del totale dell’estrazione. A discapito perenne dell’ambiente. Almeno per quanto riguarda l’impatto ambientale delle cave è intervenuta l’Europa ad imporci regole più attente con la Direttiva Europea 85/337. E’ complicata e dai tempi lunghissimi la rinaturalizzazione di una cava e del suo paesaggio circostante, la ricomposizione geomorfologica ed ecosistemica. Una sfida per trasformare questi vuoti di paesaggio in contenitori di attività sociali e culturali, da luoghi dell’abbandono in simboli di sostenibilità ambientale.

APPROFONDIMENTI