ESODI. ABBANDONO DELLE TERRE, ESODO RURALE

IL LUNGO ADDIO

Chi sia stato il primo,

non è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.

Poi, uno dopo l’altro, tutti

han preso la stessa via.

Ora non c’è più nessuno.

Giorgio Caproni, Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia (1974)

 

 Nel capitolo dedicato all’Italia contemporanea che conclude la sua Storia del paesaggio agrario italiano, Emilio Sereni si interroga sui segni che preannunciano una «fase ulteriore e finale» di disgregazione del mondo contadino. L’evidenza «più visibile e preoccupante» di tale sconvolgimento lo studioso la ritrovava nel regresso «in larghe plaghe» della «cultura aratoria» e delle utilizzazioni pascolative e boschive, nello «spopolamento di intieri villaggi e vallate», e in quelle «centinaia e migliaia di poderi, infine, che in ogni provincia italiana – specie nella montagna e nell’alta collina, ma ormai, sempre più spesso, anche al piano – risultano abbandonati» (Sereni 2003, p. 448).

La dimensione quantitativa del fenomeno ci è offerta dai dati statistici. Nel 1961, il primo censimento generale ci racconta di un Paese in cui, per la prima volta nella sua storia, gli occupati nell’industria (40,4 %) e nel terziario (30,6 %) superano quelli in agricoltura (29 %) (Pazzagli e Bonini 2018, p. 31). A partire dal 1950 (ma le radici del processo vanno cercate ancora prima), per un complesso intreccio di cause economiche, tecnologiche, politiche e culturali, un silenzioso e imponente esodo segna il tramonto dell’Italia rurale. Saranno soprattutto i giovani a lasciarsi alle spalle quello che spregiativamente veniva chiamato “l’odore di stalla”. Le conseguenze sociali di questa migrazione si paleseranno negli anni successivi, col progressivo invecchiamento dei gestori delle aziende agricole e la crisi definitiva della struttura familiare contadina.

Nonostante il generale avanzamento della produttività, le aziende agricole, soprattutto quelle delle aree più interne (penalizzate dalla distanza dai servizi e dalle aree di mercato) continueranno a diminuire. Vittime di questa contrazione saranno anche quelle di piccola dimensione, meno pronte a convertirsi alle monocolture annuali funzionali alle esigenze dell’agroindustria. Tra il 1961 e il 2010 le imprese agricole italiane hanno continuato a subire una costante emorragia numerica (passando da oltre 4,2 milioni di aziende a poco più di 1,6 milioni) e “perso il controllo” di quasi 100.000 Kmq di territorio: un terzo del Paese (Atlante Nazionale del Territorio Rurale, 2015; Spinelli e Fanfani, 2012).

Come sottolineato recentemente da Giancarlo Macchi Jánica e Alessandro Palumbo (2019, p. 9).

L’abbandono degli spazi agricoli e di altre aree produttive, con lo spopolamento degli insediamenti di riferimento, si presenta oggi come un fenomeno assodato, in grado di alterare le condizioni sociali, economiche e culturali dell’intero stivale e mostra, in organica relazione con i movimenti di scala globale, forti squilibri e scompensi territoriali segno di una vera e propria nuova stratificazione spaziale. Come suggerito da Piero Bevilacqua in L’“osso” (2002) e, più recentemente, da Fabrizio Barca in Aree interne: politiche, politica e intellettuali (2015), diverrà sempre di più una priorità per la nostra società comprendere l’impatto che questo declino cronico ha, e ancor più avrà, per il futuro del Paese.

PAESAGGI DELL’ABBANDONO

Se l’esito probabilmente più visibile delle dinamiche appena descritte è quello del degrado dei poderi rurali, tra abitazioni e strutture accessorie, meno evidente ma altrettanto importante risulta essere il generale collasso delle sistemazioni colturali, come terrazzamenti e ciglionamenti, e dei sistemi di regimazione delle acque (con gravi conseguenze di rischio idrogeologico). Ancora meno percepibile è la forte perdita culturale che si lega alla scomparsa di elementi caratterizzanti nei secoli il paesaggio italiano.
Alla contrazione dell’agricoltura contadina ha corrisposto poi un aumento delle aree improduttive e urbanizzate oltre a quello delle superfici forestali di neoformazione. La velocità del processo di forestazione in Italia, nell’ultimo secolo, procede al ritmo di circa 70.000 ettari l’anno.
L’aumento della superficie forestale potrebbe sembrare un fattore positivo dal punto di vista ecologico, ma va ricordato che i boschi di nuova formazione sono in gran parte boschi degradati – abbandonati – mancanti delle loro caratteristiche storiche: per la cessazione delle pratiche tradizionali di gestione (i boschi italiani erano largamente coltivati dalle popolazioni locali) e per orientamenti gestionali tendenti a trasformazioni “più naturali”. Azioni, queste ultime, che nel tempo si sono rivelate spesso inadeguate per la stessa conservazione degli habitat e, in generale, degli ecosistemi.

UN PATRIMONIO STORICO-AMBIENTALE PIÙ POVERO

Soprattutto in collina e in montagna, i boschi sono aumentati a scapito delle praterie – un tempo sfalciate e pascolate – e della cosiddetta “coltura promiscua”, che vedeva una varietà di specie coltivate concentrarsi nel medesimo luogo, al fine di soddisfare sia le esigenze del mercato sia quelle di sostentamento della famiglia contadina.
Come molte ricerche hanno dimostrato, pascoli e aree coltivate in modo sostenibile sono tra le superfici che manifestano i più elevati indici di biodiversità vegetale (fiori e piante protette) e zoologica (insetti, rettili, anfibi, uccelli e mammiferi). Si pensi a quante più specie animali siano richiamate in ecosistemi maggiormente complessi come sono le aree “aperte” e coltivate. In queste ultime le risorse alimentari (insetti, altri animali, piante e frutti altamente energetici) sono più abbondanti rispetto a quelle reperibili in luoghi caratterizzati da una copertura boschiva fitta e omogenea o nei quali poche specie vegetali hanno preso il sopravvento sulle altre riducendole drasticamente. Per queste ragioni la stessa fauna selvatica è sempre più spesso spinta dalla carenza di cibo a invadere spazi non naturali come quelli urbani, mentre molti animali domestici (selezionati storicamente in base alle caratteristiche del luogo) vanno scomparendo.